Per chi difende lo Stato – di qualsiasi colore – la comunità deve essere difesa da coloro che agiscono con violenza e ne minano la coesistenza pacifica. Se gli eserciti esistono perché vi sono nemici esterni reali o fittizi, i giudici e le forze dell’ordine esistono perché esistono dei nemici interni: i criminali. Se in ambito anarchico la repressione poliziesca e giuridica è ritenuta peggiore dei problemi causati dai criminali – in quanto essa riproduce ingiustizia, dolore, denigrazione della dignità umana e contrasto alle azioni di solidarietà – in ambito istituzionale la repressione e il controllo è il motore di tutta la struttura. La criminalità, secondo l’istituzione burocratica e il capitale, essendo non idonea alle norme sociali deve essere punita all’interno degli istituti carcerari ed essere, al tempo stesso, corretta.
La “correzione” ed espiazione della pena che viene spesso utilizzata verso quei/quelle detenuti/e non considerati/e “piantagrane” dagli amministratori e dal braccio armato degli istituti penitenziari è il lavoro all’interno delle carceri. La retribuzione carceraria (chiamata “mercede”) è diversa da quella dei lavoratori e delle lavoratrici considerati/e “liberi/e”.
Stando alle nuove modifiche del Ministero di Grazia e Giustizia, dal 1° Ottobre 2017 la mercede del detenuto e della detenuta passa da 2,5 euro a quasi 7 euro l’ora. In apparenza sembrerebbe un piccolo traguardo nel raggiungimento di retribuzioni accettabili; in realtà la bassa retribuzione fa sì che i detenuti e le detenute non riescano a versare i contributi per accedere ad eventuali indennità di disoccupazione. A peggiorare la cosa vi è anche un decreto del Ministero di Grazia e Giustizia del 7 Agosto del 2015 per cui la quota di mantenimento (ovvero per stare in carcere) che ogni detenuta/o deve versare è di 3,62 euro giornalieri.[1]
Se allarghiamo il discorso sui costi di un detenuto o di una detenuta, vediamo come lo Stato italiano versi quasi 2,6 miliardi di euro l’anno. Stando a quanto riportato da Stefano Cerruti in due articoli,[2] la suddivisione della spesa avviene in tal modo: il 65,4% delle risorse finisce nella voce “sicurezza”; il 15,1% in “funzionamento e manutenzione”; il 10,4% in “mantenimento e trattamento dei detenuti”; il 6,7% in “direzione, supporto e formazione del personale”; il 2,5% in “esecuzione penale esterna.” Il costo medio affrontato dallo Stato per ogni detenuto/a rinchiuso/a in un penitenziario è di 125 euro al giorno. Di questi soldi, scrive Cerruti, “solo 9,26 euro sono spesi per il mantenimento del detenuto; tutto il resto serve a mantenere la struttura, il personale amministrativo e la polizia penitenziaria”.[3]
Le aziende, invece, che assumono detenuti/e all’interno delle strutture penitenziarie ottengono un credito d’imposta per ogni “lavoratore” o “lavoratrice” assunto/a di 520 euro mensili.[4] Questo credito di imposta spetta “nei 18 mesi successivi alla cessazione dello stato detentivo per i detenuti ed internati che hanno beneficiato della semilibertà o del lavoro esterno; nei 24 mesi successivi alla cessazione dello stato detentivo nel caso di detenuti ed internati che non hanno beneficiato della semilibertà o del lavoro all’esterno.”[5]
La retorica della correzione e dell’umanizzazione delle carceri non è altro che un tentativo squallido di nascondere lo sfruttamento e le violenze (fisiche ed economiche) verso i/le detenuti/e. “La prigione” – scriveva Kropotkin in ‘Prisons and Their Moral Influence on Prisoners’ – “non previene il verificarsi di comportamenti antisociali. Anzi, ne aumenta il numero. Non migliora chi entra tra le sue mura. Per quanto possa essere perfezionata, rimarrà sempre un luogo di reclusione, un ambiente artificiale, simile a un monastero, che non farà altro che ridurre sempre più la capacità del detenuto di conformarsi alla vita di comunità. Essa non serve ai propri scopi. Degrada la società. Deve sparire. È un residuo di epoche barbare mescolato a filantropia gesuitica. Il primo compito della rivoluzione sarà quello di abolire le prigioni, questi monumenti alla ipocrisia e alla viltà degli uomini.”[6]
Le carceri, così come sono concepite, servono per isolare l’individuo dalla società e mantenerlo al margine di questa. Tale allontanamento porta l’individuo a tagliare le relazioni sociali e ciò costituisce, per gli anarchici e le anarchiche, una delle conseguenze più gravi generate del carcere. Se relazioni sociali si vengono a formare nel carcere, sono quelle con la criminalità organizzata: non a caso, il carcere nella cultura popolare è detto “l’università del crimine”…
Il reinserimento del cosiddetto criminale si rivela una fandonia, in quanto si formano individui rieducati alla paura ed alle logiche del Capitale e dello Stato: su questo, Harold Thompson[7] scriveva come il carcere abbia “lo scopo di isolare il prigioniero dalla famiglia e dagli amici, abbattere la loro personalità per costringerlo, attraverso vari gradi di tecniche di lavaggio del cervello, a diventare un altro robot obbediente per il capitalismo.”[8]
La repressione così giustificata porta a quello che era stato scritto nell’articolo “Catania: tra teoria e pratica repressiva”: in una comunità gerarchica e piramidale è fondamentale “una cultura votata alla repressione e all’accettazione -tramite la paura- delle norme sociali considerate sane e naturali” in quanto si verranno a creare individui credenti nella forza repressiva poliziesca o credenti nella delinquenza, “un binarismo immanente ed immutabile, fondato sul giusto e sull’ingiusto, onestà e disonestà ecc. Chi amministra e controlla una società fondata sulla gerarchia, sull’alienazione e su normative considerate naturali, deve evitare che venga superato tale binarismo immanente ed immutabile in quanto si genera il caos, il vuoto, l’ignoto, l’inaspettato.”[9]
Redazionale
Note
[1] D.M. 7 agosto 2015 “Rivalutazione delle quote di mantenimento a carico dei detenuti”,
http://www.bv.ipzs.it/bv-pdf/003/MOD-BP-15-071-185_2138_1.pdf
[2] “Quanto costa un detenuto. Raddoppiano le quote di mantenimento”, in Il Nuovo Carte Bollate, numero 6, Novembre-Dicembre 2015 e “Il lavoro di un detenuto vale 2,50 euro l’ora”, in Il Nuovo Carte Bollate, 1 Marzo 2016. http://www.ristretti.it/commenti/2015/novembre/pdf5/carte_bollate.pdf e http://www.ristretti.it/commenti/2016/marzo/pdf/carte_bollate.pdf
[3] I dati riportati da Cerruti nei due articoli citati nella nota 9 sono confermati anche dal dossier di Openpolis, “Dentro o fuori – Il sistema penitenziario italiano tra vita in carcere e reinserimento sociale” del Novembre 2016. http://minidossier.openpolis.it/2016/09/dentro_o_fuori.pdf
[4] Nel caso di detenuti e detenute semiliberi/e, il credito d’imposta per ogni lavoratore e lavoratrice assunta è di 300 euro mensili.
[5] https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_3_4_4.wp
[6] Testo contenuto nel libro Anarchia e prigioni. Scritti sull’abolizione del carcere”, edito da Ortica Editrice Società Cooperativa, Anzio-Lavinio (RM), 2014.
[7] Harold Thompson fu un anarchico statunitense condannato all’ergastolo per aver commesso rapine e un omicidio. In carcere si occupò fino alla sua morte (avvenuta nel 2008) delle ingiustizie contro i detenuti.
[8] “The role of prisons in the scheme of capitalism” http://www.haroldhthompson.uwclub.net/role_of_prisons_in_the_scheme_of.htm